Lo sviluppo del neoclassicismo e le discussioni del «gusto presente» (1953)

Lo sviluppo del neoclassicismo e le discussioni del «gusto presente», «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», serie II, vol. XXXII, Pisa 1953, poi in W. Binni, Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento cit.

LO SVILUPPO DEL NEOCLASSICISMO E LE DISCUSSIONI deL «GUSTO PRESENTE»

Alla diffusione, tra il ’60 e l’80, delle traduzioni preromantiche e agli entusiasmi dei letterati piú «moderni» per i nuovi temi e il nuovo gusto di origine «oltramontana», corrisponde una reazione delle correnti classicistiche tradizionali di origine arcadico-illuministica, che si va a sua volta progressivamente precisando, sull’appoggio della nuova diffusione delle teorie neoclassiche winckelmanniane, in una piú complessa lotta del neoclassicismo contro i residui arcadici metastasiani passati sotto il nome di «facilismo meridionale»[1], contro il didascalismo razionalistico piú crudo e soprattutto contro l’indirizzo preromantico piú esplicito e «straniero»: lotta che ci interessa come precisazione di una graduazione cronologica e ideale di momenti e di componenti diverse nel complesso quadro della poetica dell’ultimo Settecento e come delimitazione di una poetica neoclassica che si enuclea lentamente in una fase di crisi piú profonda e di compromessi eclettici (per i quali rimando alle considerazioni generali contenute nel mio Preromanticismo italiano).

Questa poetica, mentre si precisa intorno a motivi ideali, a temi ispirativi, a moduli stilistici mutuati in gran parte alla descrittiva e precettistica figurativa winckelmanniana e mengsiana, e si articola entro le vecchie forme del classicismo precedente spingendole a nuove funzioni e trasformandole in nuove forme piú chiaramente neoclassiche, trova una progressiva sistemazione nel gusto dell’epoca, una progressiva presa di coscienza della propria validità, nella lotta che numerosi letterati condussero – specie intorno al 1780 e successivamente – contro le correnti letterarie in mezzo a cui la nuova poetica si sviluppa e che a poco a poco vede sempre meglio distinte ed ostili alla propria individualità. Donde l’utilità di considerare da questo punto di vista le trattazioni di quegli anni sul «gusto presente» in Italia, nel loro parziale accoglimento di elementi preromantici e illuministici depurati dei loro valori piú decisivi e subordinati ad un chiaro disegno neoclassico e addirittura nel piú esplicito e polemico rifiuto di quelle «malnate fonti» nordiche alle quali si contrappone il pariniano richiamo ai «limpidi di Grecia rivi», alla tradizione letteraria nazionale italo-greco-latina (e soprattutto italo-greca) nel cui culto confluivano, a rinforzo, stimoli del pensiero graviniano e suggestioni piú recenti del Winckelmann con la sua ideale patria romano-greca.

Queste discussioni sul «gusto presente», sulle sue condizioni obiettive e sull’indirizzo che gli si vuole dare, sono in generale notevoli come documento di una coscienza della crisi dell’ultimo Settecento e di una volontà di risolverla, particolarmente chiara nelle correnti neoclassiche che in quegli anni rappresentano, se non la linea piú profonda e rinnovatrice dell’epoca (che vive sostanzialmente nel segno piú vasto e fecondo del preromanticismo a cui le stesse ragioni piú intime del neoclassicismo riconducono come ansia e tensione di poesia, come nostalgia di terre ideali, di nobiltà sentimentale, anche se tutto ciò generalmente si irrigidisce, nel neoclassicismo piú dogmatico e accademico, in canoni sterili e in sogni libreschi), certo la sua piega piú caratterizzata e programmatica, la sua direzione stilistica piú precisa.

Il problema, che riprendeva quello delle discussioni arcadiche di primo Settecento quanto a volontà di esame e di programma, fu posto chiaramente nel concorso bandito dalla Accademia Virgiliana di Mantova nel 1781 e, come nella stessa formulazione del tema («Qual sia presentemente il gusto delle belle lettere in Italia e come possa restituirsi se in parte depravato») si può notare una implicita volontà di epurazione degli elementi corruttori, nella maggior parte delle risposte si può ricostruire una delimitazione della poetica neoclassica nella sua reazione alla «invasione» preromantica e, in secondo piano, all’illuminismo «francese» nel suo praticismo prosastico e matematico. Cosí, nella risposta di Matteo Borsa[2], i caratteri costitutivi e condannabili del «gusto presente» sono infatti il «neologismo straniero» («Scorrete finalmente le case; v’incontrerete in libri stranieri ad ogni angolo mentre i nostri buoni italiani dormono coi greci nelle pubbliche librerie»[3]) e le traduzioni dalle lingue moderne[4], mentre meno fieramente veniva avversato il «filosofismo enciclopedico», cioè il gusto di volgarizzazione illuministica contro il quale in zona neoclassica elementi di reazione nazionalistica e conservatrice si accompagnano con l’antipatia per una poesia unicamente utilitaristica, lontana dal senso alto del linguaggio poetico e del decoro poetico che è proprio del neoclassicismo.

«Insomma il Seicento fu gonfio per isforzo di fantasia, e per affettazione di ingegno; e il secolo presente lo è egualmente, non meno per isforzo di filosofismo, e di ragione, che per una affettazione indicibile di sensibilità, e di morale»[5].

Lotta su due fronti dunque, contro illuminismo utilitaristico, praticismo razionalistico e contro sentimentalismo preromantico[6].

Mentre poi Stefano Arteaga, nelle sue osservazioni alla fine del volume, riaffermava, contro la reazione eccessiva e polemica e sempre in ambito neoclassico, un relativo legame con l’illuminismo difendendo non il filosofismo enciclopedico, ma l’importanza di un intervento della «ragione» e del didascalismo poetico secondo i dettami graviniani: «Tale il divin Virgilio, a cui l’incomparibili sue Georgiche e la sublime esposizione del sistema di Platone inserita nel sesto libro dell’Eneide assicurano un posto luminoso tra i seguaci della filosofia. Tale il cantor di Venosa, il quale non so se piú giovi ad ammaestrare lo spirito dei lettori con morali precetti, che a perfezionare il loro gusto colle squisite poesie»[7].

La reazione decisa al preromanticismo si fa cosí piú incerta e complessa di fronte al «filosofismo», combattuto in quanto mentalità enciclopedica e poesia utilitaristica, non in quanto didascalismo piú generale ed esigenza di «sugo filosofico» trasfigurato in miti; in un’inevitabile confusione di antipatie e simpatie ideologiche estranee al semplice «gusto». E antipatie e simpatie di ordine nazionalistico e addirittura xenofobo si mescolano in questa polemica sul gusto corrotto, nelle loro sfumature di difficile precisazione fra puro conservatorismo campanilistico e preannuncio di vero nazionalismo romantico, come negli opuscoli di Andrea Rubbi, zelante promotore di imprese letterarie, di almanacchi e di raccolte (il Parnaso italiano, ecc.).

Maniacamente occupato nel ricercare la superiorità della nostra letteratura in un «talento nazionale» (amabilità dello spirito, perfezione del cuore, varietà di educazione, cultura di intelletto) che lo induce perfino a discutere la supremazia dei greci, da lui tanto ammirati, sugli italiani (e si badi che siamo ormai nella fase della grecomania, la fase cui ben s’adattano i versi del Galiani:

In casa mia

voglio che tutto sia grecismo, e voglio

che sin il can che ho meco,

dimeni la sua coda all’uso greco),[8]

il Rubbi, mentre riafferma il piú integrale classicismo[9] e combatte preromanticismo e filosofismo (soprattutto come gallomania), indica nei suoi Dialoghi[10] un’importante presa di posizione neoclassica di fronte al praticismo utilitaristico del classicismo illuministico, servendo anche lui a quella identificazione del movimento neoclassico che si chiarisce, oltre che nella pratica poetica, in queste discussioni.

Domandandosi[11] «se la poesia piú debba alla lingua o la lingua alla poesia», si dichiara per il secondo corno del dilemma, affermando che «l’armonia delle lingue viene dalla loro ricchezza e questa nasce solo dai poeti... Guai ad una nazione senza poeti! Sarà povera d’espressioni come di idee!». E in un poemetto contemporaneo[12], in mezzo alle ricerche fanatiche dell’«italo bello», egli si oppone alla semplice dipendenza di bellezza da verità, rivendicando in quel binomio la preminenza del primo termine, escludendolo da ogni attività non estetica e letteraria, e distinguendo verità fisica e matematica da verità poetica.

«Niuna cosa è bella se non è anche vera, disse Boileau e volle intendere che il solo vero è bello. Acconsento. Ma perché non potrò io dire, parlando di letteratura: niuna cosa è vera, se non è anche bella?». «Truth is beauty and beauty truth», esclamerà Keats nell’Ode on a Grecian Urn, ma è chiaro che nell’incontro dei due termini, preannunciato dal Gravina e rafforzato dal Winckelmann, il termine «bellezza» acquista sempre piú nel neoclassicismo un’effettiva preminenza, pur nel senso solenne e spesso retorico d’una poesia messaggera di verità sublimi ed ascose al volgo. Ed è proprio in questa nuova accentuazione che il neoclassicismo supera il senso illuministico dell’utile dulci (brio espressivo, forza icastica e volgarizzazione utilitaristica) e si discosta dalla piú viva attenzione preromantica alla forza espressiva di una verità sentimentale qualunque essa sia, di un carattere purché organico. Distinzione della linea neoclassica da classicismo illuministico e rococò e da preromanticismo a cui può ben servire anche il Saggio metafisico sopra l’entusiasmo nelle belle arti di Agostino Paradisi, in risposta al famoso Saggio del Bettinelli di cui corregge in senso neoclassico le affermazioni piú esuberanti fra estro rococò e sublime preromantico[13]. Per il Bettinelli l’entusiasmo era «un’elevazione dell’anima a vedere rapidamente cose inusitate e mirabili passionandosi e trasfondendo altrui la passione», per il Paradisi invece (e lo stesso stile testimonia dell’essenziale differenza): «Sarà dunque l’entusiasmo quel piacere che gusta l’anima nell’associare alle idee della bellezza gli attributi della perfezione»[14].

Ed è proprio l’idea del «perfetto» che qualifica in maniera chiarissima la tendenza neoclassica, che non accetta mai il «non finito» geniale di Michelangelo e adora la somma di parti belle in una unione armonica. Per cui la semplice «imitazione della natura» non basta: deve essere imitazione di oggetti belli per effetti di bellezza, in base a modelli superiori e perfetti, mediante una «interna facoltà dell’animo di perfezionare in se stessa le cose che non sono perfette nel mondo reale, modificandole e comprendendole delle idee del bello»[15].

E alla fine del secolo Ignazio Martignoni nel suo saggio dedicato al Bettinelli[16], mentre si rivolge a questo patriarca della letteratura settecentesca (passato dalle audacie illuministiche e preromantiche, avvivate dalla sua potente curiosità e raffinate dal suo stilismo acutissimo, a piú distese posizioni neoclassiche e nazionalconservatrici), per una difesa della letteratura italiana da «quel fatal contagio» che l’«invade miseramente oggidí» e contrapponendo come antidoto il «richiamare gli sviati ingegni alla imitazione della bella natura ed all’assiduo studio degli ottimi esemplari, segnatamente antichi», in una eclettica utilizzazione di motivi neoclassici e preromantici in ragionevole buon senso e buon gusto, enuclea soprattutto una posizione neoclassica, consapevole dell’avvertimento preromantico privato dal suo accento piú caratteristico e rivoluzionario, prima di giungere a tipiche posizioni di neoclassicismo romantico con accentuazione piú risoluta di lirica alta, di sublime. Come farà piú tardi nel trattato Del bello e del sublime[17], che insieme al saggio del Borgno allegato ai Sepolcri (nella edizione Silvestri del 1813) costituisce l’utile sfondo alla poetica dei Sepolcri foscoliani.

Ma qui siamo ancora in un compromesso piú tenue fra sensibilità preromantica e bellezza neoclassica, e l’accordo di verità e bellezza, di grazia e sublime ha luogo piú sullo sfondo del gessenerismo bertoliano, della bella e dolce natura pindemontiana e del fascino gracile dell’Apollo winckelmanniano e mengsiano: grecità, bella natura scelta e organizzata delicatamente in perfezione aggraziata, in nobiltà senza scatti e senza movimenti passionali. Anche qui rinnovata paura del ritorno barocco camuffato di sentimentalismo sfrenato o di capziose, sofistiche «astruserie» metafisiche (Young e Klopstock per intenderci), confinante poi con l’intellettualismo illuministico avversato anche per inerenti ragioni di gallofobia[18], e un’equilibrata posizione che sarà ripresa dal Foscolo[19] di fronte alla «moderna lascivia e alla ruggine antica»[20] nei riguardi della lingua. Ed anche qui, come meglio avverrà nel trattato successivo, le linee neoclassiche sono meglio tese dall’arricchimento di elementi preromantici già mediati nel Saggio del Bettinelli[21], e da un rifluire piú intenso di vivi elementi contiani e graviniani[22], che sulla via del particolarizzamento del mirabile e verisimile, e dell’unione di parola e verità[23], permetteranno un atteggiamento di neoclassicismo equilibrato attento agli esempi (specie greci), ma insieme al «gusto» in sé e per sé[24] e ad un’intrinseca saggezza tante volte invocata dagli italiani moderati nel neoclassicismo come nel preromanticismo.

Ma il culmine del trattato è chiaramente neoclassico, come neoclassico è il senso costante del kalokagathós[25] e neoclassici sono i principi di «unità e varietà» e l’importanza degli «episodi» che fanno sentire la comunanza di interessi da cui sorgerà la Ragione poetica delle Grazie. Al «bello relativo» che vuol salvare il principio «storico» preromantico, cosí forte ad esempio nel Discours barettiano, fa però da fondo di perenne riferimento il «bello assoluto», «ideale, scelto, sublime», «qual si ravvisa nelle celesti fantasie di Omero, negli eccelsi deliri del Petrarca, nelle divine forme delle statue greche, ne’ dintorni vaghissimi di Raffaello, nelle fisionomie del Correggio, di Guido, del Parmigianino»[26]. «Idea perfetta» e bella che non esiste in un «solo abbietto», che può essere scelto solo secondo il solito esempio di Zeusi e che, nella sua assolutezza, vive in un cielo supremo: «una sfera celeste, dove in un etere dolce e purissimo spaziano i vividi e sublimi fantasmi, i nobili ed elevati affetti, le immagini splendide, mirabili, pellegrine»[27]. Non dunque imitazione della natura, ma della «bella natura» che implica verità e bellezza mai separabili, ma in tal relazione che «se ogni bello è vero, non ogni vero è bello»[28]. Affermazione che riconduce all’essenziale motivo neoclassico di un singolare estetismo a sfondo morale che lascerà le sue tracce persino nel mondo severo e intenso di un Foscolo e che esalta l’esemplarità dei greci soprattutto (nelle condizioni indicate dal Winckelmann) perché capaci di creare bellezza anche partendo dagli effetti terribili e violenti. «I Greci oltre ogni credere al bello sensibili, combinar seppero la venustà delle forme colle significazioni degli affetti la piú evidente ed energica: nei gruppi del Laocoonte e della Niobe scorgersi un dolore acerbissimo e profondo, ma sublime del pari, e scevero da violenti fremiti di membra, e da contrazioni di muscoli, che, distruggendo la bellezza, disperso avrebbero con essa il piú soave incantesimo...»[29].

Esaltazione del «bello» che è reso «in singolar modo proprio dei poeti che al diletto anelano con ogni maniera di seduzioni». «Dal coro perciò delle Grazie non si scompagnino essi giammai, che troppo è lor necessario un tale corteggio, quand’anche, ammessi i piú lieti argomenti, sorgon maestri d’arcane dottrine. Vestano dunque di vive e leggiadre immagini le sottili contemplazioni; e idoleggiando gli astratti pensieri li rappresentino sotto forme sensibili; preferiscano gli esempi ai precetti, spargan di fiori gli spinosi sentieri della filosofia, e stillin negli animi la virtú per la via non fallibile del piacere. La sensibilità in fatti pel bello ci è stata dal Creatore accordata, onde ammansare la vivacità delle nostre passioni per indole propria tumultuose, ed affine di sollevarci per mezzo del bello sensibile, e materiale alla eccelsa contemplazione del bello sovraumano»[30]. Motivazioni di origine graviniana come l’insistenza sul bisogno di mito, di favole: magari quelle dei poemi cavallereschi, con la precisazione piú tipicamente neoclassica (e vivissima poi nel Foscolo) della vitalità della mitologia greca di cui il Martignoni traccia un quadro sensibile e aggraziato: «L’universo poetico degli antichi era infatti popolato da mille simulacri, ed idoli dalla fantasia creati, che il rendeano sommamente vago, e mirabile. Gli oggetti, che non han senso, vi prendeano anima, e vita, e forme sensibili quelli che ne son privi. Di Driadi rideano i boschi, di Najadi le acque, e a’ loro canti rispondea da’ sassi l’eco dogliosa. La bella foriera del giorno spargea pel ciel tenebroso gigli e viole, mentre le giovinette Ore precedeano vispe e ridenti il carro del sole. E nel silenzio della notte la pallida Luna spaziava su argentea biga per gli immensi campi dell’Empireo. Tutto in fine prendea della beata fantasia de’ Greci un aspetto sí lieto, sí amabile, sí pittoresco, tutto era abbellito da sí vaghe, ed eccelse immagini, che nulla puossi idear di piú atto ad arricchir la poesia, e le belle arti...»[31].

In queste polemiche e trattazioni in cui si delinea l’affermazione del gusto neoclassico fra distinzioni, reazioni contro il preromanticismo e parziali accettazioni di alcuni suoi moderati elementi, si può individuare (accanto al «grecismo» che culminerà nel Foscolo e in cui si ritroveranno i fermenti piú vivi del Gravina e del Monti insieme a stimoli vichiani) una posizione polemica intransigente nel latinista Vannetti, campione precoce del purismo e continuatore in zona neoclassica dell’orazianesimo algarottiano, privato delle sue caratteristiche rococò e illuministiche piú decise[32].

Il nome di Clementino Vannetti da Rovereto (1754-1795) ricorre frequentemente negli epistolari dell’ultimo Settecento come quello di uno strenuo difensore della tradizione classica in Italia contro le «deviazioni» preromantiche, che egli mal tollerava anche nel suo ammirato Cesarotti[33].

E di lui infatti non ci interessano le poesie originali[34], accademiche e frivole fra scherzi, epigrammi, sonetti e capitoli berneschi, né qualche rara traduzione dal greco (ad es. l’idillio XI di Teocrito[35]), ma piuttosto gli scritti polemici appoggiati al suo culto di Orazio, il poeta che egli difende con acute e sofistiche discussioni sulle varie traduzioni settecentesche di Orazio[36] riconducendo la tradizionale imitazione oraziana alla piú pura fedeltà, alle qualità di concisione e chiarezza contro le deformazioni e l’eccessiva stilizzazione del «brillante» rococò («egli è stretto e conciso, ma insieme piano ed aperto»[37]), e al predominio di un’alta, decorosa discorsività, aperta e controllata, ritrovata piú che nelle Odi nelle Satire ed Epistole[38]. E queste venivano tradotte non in terzine secondo la piú comune tradizione italiana, ma in versi sciolti, piú adatti ad unire in questo gusto nuovo la discorsività fluida e linee decorose ed ampie senza l’accentuazione brillante e colorita della rima a cui piú facilmente portava la traduzione delle Odi, piú care ai savioliani e meno ai neoclassici piú libreschi e teorici, che cercano nel poemetto e nel sermone in versi sciolti – già amati dal classicismo illuministico (e qui era un punto di continuità evidente fra queste due fasi di gusto nel comune amore per il didascalico anche se diversamente giustificato[39]) – un ritmo lungo e piuttosto monotono che brillante.

Sulla base di Orazio, sempre invocato a sostegno delle sue esercitazioni poetiche, specie dove poteva nascere il sospetto di cadenze «preromantiche»[40], e in una esigenza soprattutto di purezza linguistica (non per nulla il Cesari ne scrisse la vita parlando di lui come di un precursore del purismo), il Vannetti chiarisce bene il suo interesse di zelante conservatore in alcune Epistole e nei Dialoghi dell’Eremita[41], che fan pensare all’Osservatore del Gozzi, ma piú, per il tono aggressivo ed angusto, ai Dialoghetti di Monaldo Leopardi!

Partendo da un esplicito proposito polemico e didattico (parodia educativa che vuole attuare il suggerimento del Borsa là dove propone «il ridicolo d’una parodia a tentar la guarigione d’Italia»[42]), il Vannetti intesse smilzi dialoghetti sul gusto contemporaneo, per lo piú sfocati ed evanescenti, ma, come nel caso del quinto (La scuola del buon gusto nella bottega del Caffè), interessanti a precisare i punti di reazione del classicismo piú rigido e conservatore: quali si prospetteranno poi nelle polemiche dal 1816 in poi, nella romanticomachia e sin nel Discorso di un italiano sopra la poesia romantica del Leopardi, ben diversamente ricco di una speciale coscienza romantica del tutto assente in posizioni di classicismo rigido come quella del Vannetti e come quelle dei classicisti piú ortodossi e pedanteschi del 1816 a cui il neoclassicismo non giunse che nelle sue forme piú esterne e regolistiche[43]. L’Eremita prende a commentare ironicamente le proposizioni fondamentali di un immaginario libro dal titolo La crisi benefica del gusto ovvero Dettagli e quadri di eloquenza e poesia per gli italiani del secolo illuminato, da cui merita la pena di trascrivere alcuni passi indicativi per questa reazione che potrà considerarsi come l’archetipo di tutto lo scadente pamphlettismo dei classicisti nella romanticomachia e che non manca anche di punte contro la cultura illuministica «matematica» e «francese»[44]:

I. Il Settentrione è la scuola dell’ottimo gusto: pregiudizi dell’Italia su ciò: il clima gelato influisce a meraviglia su l’arte di fantasia. [E si pensi per contrasto implicito al Winckelmann e alle sue idee sull’influenza del clima greco]... III. Il linguaggio degli affetti è il medesimo in tutti i popoli, ed è una pedanteria la distinzione fra il genio grammaticale e il genio retorico d’un idioma. Dunque libertà di voci e di sintassi straniere in ogni idioma [attacco questo che in realtà si rivolge piú che ai preromantici al praticismo del Caffè]... IV. Essendo l’eloquenza e la poesia egualmente figlie delle passioni, e trovandosi queste nel cuore d’ogni uomo, si rende superfluo il ricorrere a’ modelli consacrati dal tempo. Danni perciò dell’imitazione, inutilità de’ precetti, e bando necessario di tutti gli antichi autori, che sono i tiranni dell’ingegno. (Io piango ancora i miei primi anni miseramente perduti dietro a que’ barbagianni di Cicerone e di Virgilio. Buon per me che di tutta quella broda mi s’è appiccato addosso pochissimo. Ma fu certo mia gran ventura, che una brutta dama contemplativa mi desse in mano le Notti dell’Young ed il Messia di Klopstock; fu allora che mi si apersero gli occhi dell’intelletto).

V. Natura, genio, sensibilità, indipendenza, infarinatura universale sono i veri, e soli fondamenti di uno scrittore. Progetto d’un’aria infiammabile particolare, onde caricato per la bocca e le narici il cerebro umano possa produrre uno stile sinora incognito, che si chiamerà stile aerostatico ovvero montgolfiloquio...

VI. La poesia è riposta nella sublimità delle idee, nel disordine, nel furore. Il metro è estrinseco all’essenza di essa, e però superfluo.

Quindi la prosa non si distingue tal volta dalla poesia, e la poesia rimane sempre tale anche in prosa...

VII. Volendo scriver poesie in versi, adattisi il metro a’ pensieri, e quindi in uno stesso componimento si usin piú metri ad arbitrio, e dagli sciolti si passi alle ottave, dalle ottave agli sdruccioli, dagli sdruccioli ai terzetti, ecc. il che sarà propriamente l’organo della poesia. Ciascun poi de’ metri dee recarsi alla maggiore perfezione, cioè alla maggiore sonorità...

La maggior nemica de’ versi è la lima... Finalmente è una sciocchezza circoscrivere nel verso le cose quando si hanno i loro vocaboli propri, specialmente scientifici...[45]

In cui ben si vede come la reazione neoclassica miri anzitutto al preromanticismo e secondariamente ad aspetti della cultura illuministica. Come nel passo seguente:

Pregi dello stile nell’eloquenza sí legata, che sciolta; irregolarità originale, concettosità, patina filosofica; rompimento del discorso in piccoli periodi a beneficio del polmone; industria di ripetizioni per aiuto della memoria; scrupolosa minutezza di particolareggiamenti, onde non lasciar nulla da pensare agli altri; lusso di personificazione, multiplicità di riflessioni non mai abbastanza inculcate sebben comuni; effusione di soliloqui e colloqui etico-mistici; raccapriccio di convulsioni spirituali, stemperamento di teneri deliqui; rinforzo di invocazioni e di interiezioni sospirose ad ogni terza parola; sontuosità, ed insieme esattezza compassata di paragoni tolti il piú dalla forza elastica, centripeta, elettrica; o dall’aurora o dalla primavera; cocior di metafore arabico-rabbiniche; prepotenza di epiteti grandisonanti; lusinga di nomi spaziosi, guai sono amor puro, cuor sensibile, innocenza, virtú, beneficienza, ecc.; e soprattutto una bella eguaglianza di tuono declamatorio.

IX. Soggetti piú acconci a vestirsi del suddetto stile: associazioni, meditazioni, temi profetici, romanzerie pastorali, sventure d’amanti, fulmini, vulcani, comete, tremiti, infermerie, sepolcri, eremi, sacrilegi, bestemmie, veleni, stili, catene, cilici, disperazioni eroiche, suicidi, ecc. Bisogna guardarsi da tutto ciò, che ha troppo del naturale, o che non giunge all’eccesso perché non fa colpo.

X. Mezzi per disporsi allo stile ed a’ soggetti descritti: nodrirsi di castagne, di mele cotogne e di fave, e bere acquavite e birra, vestir di bigio, abitar presso qualche strepitosa cascata d’acqua in volte terrene, ove il sole non possa, e, s’è fattibile, vicino di alcun patibolo; non usar altro lume, che di poco lucignolo; non aver altre immagini nella camera che quelle d’una Giunia, di una Dublis, d’una Giulia, d’un Enrico Mandeville, ecc.; guardar tutti gli oggetti con vetri, che ingrandiscono a mille doppi; vagheggiar solitudine e temporali; non legger che traduzioni di romanzetti, di commedie piangolose, o tragedie, e di piccole enciclopedie inglesi, francesi e tedesche, senza cercar indiscretamente né lingua, né fedeltà; tener un orologio, la cui campanella suoni lento, roco e cupo; andar a meditare sotto l’ombre di cipressi, o di noci; formarsi l’orecchio al rimugghiar dell’eco d’alcuna grotta frequentata dai barbagianni, leggendo quivi i propri scritti; visitar falliti, cachettici, vedere l’ufficiali, mogli d’invalidi, ecc. e passeggiare al raggio di luna pe’ cimiteri.[46]

Tutte le tendenze preromantiche dall’ossianismo all’younghismo, al wertherismo, dalla commedia larmoyante al romanzo moralistico e sentimentale alla Richardson sono qui ridicolizzate.

E soprattutto l’Ossian cesarottiano veniva preso di mira come il punto di maggiore scandalo: e giustamente perché, malgrado i compromessi del grande letterato veneto, ed anzi proprio per ciò, attraverso quella traduzione si era precisata in Italia una lingua poetica inconfondibile e straordinariamente efficace e la sensibilità preromantica aveva trovato la sua possibilità di espressione.

È cosí ai dialoghi poetici dedicati alla «memoria acerba» dell’Ossian che il Vannetti pensava quando scriveva la satira Bertoldo e Cacasenno o ver La voce del Cigno:

Il canuto Bertoldo in grembo ad una collina ricercava supino dall’astro diurno i benefici influssi. Un’estasi tranquilla lo possedeva: le cispose palpebre eran immobili. Fra tanto Cacasenno, il suo nipote, guardavalo non veduto. Il buon vecchio rapito sospirava. Il nipote sentiva dei fremiti di gioia. Amato nonno (proruppe al fin questi con la voce tremola della tenerezza), a quai deliziosi trasporti s’abbandona ora il tuo spirito? Il globo s’incupa, e s’annichila dinanzi al tuo sguardo che non lo cura. Tu segui a sospirare. O nonno mio, ti vorrei chieder una grazia. Caro nipote, disse allora Bertoldo... Caro nipote, chiedi pur francamente, vieni al mio seno, ch’io voglio stemperare il mio cuore in baci su la tua fronte onorata. Cacasenno si pose a sedere, e Bertoldo non saziavasi di baciarlo. Solea raccontarmi (disse il giovane) la mia madre Menghina, che su l’aprile degli anni tuoi tutto il paese ti rispettava quale vate estemporaneo e che nelle tenzoni riportasti un giorno in premio del canto piú d’un becco. Ah se di nuovo tu volessi, caro il mio nonno, tentare il canto! Sí, rispose Bertoldo con un parossismo di dolcezza, che gli fece brillar gli occhi della rugiada del cuore, sí, il tenterò; e tu udirai l’ultima canzone dell’avolo. Cacasenno gli sugge le lagrime con le sue labbra: egli si raccoglie un momento, e prende a cantar cosí: O maccheroni, una volta ancor beatemi del vostro sapore! Gli anni m’opprimono; gli anni, che m’invidiano il trattar la mestola, e la forcina con la fermezza di un giorno! Io tremo, o maccheroni, quasi come tremano le gocce del burro, allorché careggiano spumose la superficie delle vostre creste! Cadrei, se non mi sostenesse la speranza di rigustarvi. Oh maccheroni, il vostro bacio è il balsamo del mio essere! La morte m’adocchia: io qual campione, mi calco in testa il cappello e pronunzio il vostro nome: ella fugge. Ah questa bocca, eziandio fatta polvere, parlerà sempre di voi. Cosí Bertoldo, e cantarono in coro gli amabili araldi di maggio: cantarono, e nella loro cara melodia gli ricordavano le gaie ariette della sua gioventú.[47]

Nella polemica contro il preromanticismo e l’illuminismo era implicita una fede diversa accanitamente difesa, un’ortodossia neoclassica – anche se piú oraziana e latina che grecizzante – che viene precisata dal Vannetti anche in due epistole al Monti giovane, ondeggiante fra wertherismo, eclettismo grandioso varaniano e frugoniano e purezza neoclassica. Nella prima, meno interessante, vi è la solita battaglia contro il filosofismo e una contrapposizione di «lima» contro «tono originale», di elaborazione contro impeti ed abbandoni, che mostra fino all’eccesso l’aridità e letterarietà di questo estremo campione di classicismo intransigente, disposto a ridurre la poesia a purezza calligrafica, a pulizia di traduzione e imitazione di mondi poetici già espressi, per evitare ogni fremito eccessivo dello scrittore! Nella seconda, scritta in occasione del Saggio di poesie, uscito a Livorno nel 1779, il Vannetti vuol dissuadere il Monti dalla «poesia metafisica»[48] come causa di oscurità, e dai soggetti «biblici e cristiani» (il cattolicissimo Vannetti!) intrinsecamente non poetici:

le belle glorie mie (la marzia Roma

sembra dirti) rimira; e i figli suoi

da tutti i sette colli, ecco, ti addita;

i pietosi Camilli e i forti Curi

spargi di nuova luce, o usar ti piaccia

i numeri tebani, e ’l sofocleo

cinger coturno e passeggiar le scene.[49]

Sconfessando implicitamente il Varano che tanto aveva insistito sulla «poeticità» dei soggetti cristiani e biblici, condanna coloro che «vorrebbero sostituire i tremendi misteri della religione non suscettibili di ornamento leggiadro alle varie e felici finzioni della mitologia la quale in fin contiene le piú utili verità morali, e a cui non resiste che un mal fondato e vanissimo scrupolo»[50], e sconsiglia insieme l’imitazione dei poeti ebraici anticipando le polemiche degli antiromantici contro la poesia «orientale»: «Le frasi orientali riescono caricate e stravaganti nel nostro idioma, e chiunque ha voluto far pompa anche in versi del linguaggio della Cantica, e di altri libri scritturali, per quanto arte e destrezza vi abbia impiegata, non ha provato se non che appunto un simile innesto è generalmente incompatibile col genio della nostra poesia meno calda e piú regolare e quasi pudica»[51]. Come naturalmente sconsiglia con maggior violenza l’imitazione dei poeti tedeschi nei quali egli sente un ritorno del tono oratorio del Seicento[52], pur non sottraendosi all’ammirazione per il «dolce Gesnero» e per un certo mito di idillio naturalistico e domestico tedesco che il Bertola andava diffondendo in questi anni.

L’oscurità, l’astrattezza metafisica, la brutalità dei soggetti «orrorosi», il fasto orientale e barocco, sono gli spauracchi del Vannetti e dei neoclassici intransigenti, che pur mantengono nel loro culto della bellezza ideale un’esigenza di concretezza sensibile ereditata dal classicismo sensistico, un bisogno di miti ben evidenti che corrispondono nel purismo linguistico[53] all’esigenza però di una lingua organica, non approssimativa: esigenze che valgono positivamente quando saranno riprese dal Foscolo o dal Leopardi.

L’opera del Vannetti continuò sin verso la fine del secolo a costituire il riparo piú risoluto del neoclassicismo, trasformandosi poi nella difesa del bello scrivere e della purezza linguistica del Cesari e del Giordani, mentre i motivi piú vivi del gusto neoclassico, sempre appoggiati allo stile delle arti figurative (Appiani e soprattutto Canova), verranno agli inizi del secolo ripresi e nuovamente svolti dal Monti e dal Foscolo e fecondati in quest’ultimo dal suo potente spirito romantico in una speciale linea neoclassica-romantica in cui gli elementi di nostalgia, di aspirazione ad un mondo perfetto di bellezza agiranno come distinzione dal romanticismo ufficiale, ma anche come trasformazione, essa stessa, a suo modo, romantica, di quegli elementi di perspicuitas, di regolarità, di chiarezza, di sicurezza formale che nel Settecento erano rimasti, anche nella valida espressione poetica pariniana, piú legati ad una concezione edonistica della poesia. E in tal senso le esili sintesi preromantiche di un Pindemonte o di un Bertola e il premere, anche se combattuto, dei fermenti preromantici avevano il valore di un esempio e di uno stimolo essenziali sulla via della grande sintesi letteraria e poetica foscoliana, vero culmine di un’epoca di crisi e di ricerche.

In queste discussioni e trattazioni fra estetica e poetica (e la parola gusto tanto adoperata in quegli anni, come del resto nel periodo arcadico, è veramente la piú adatta a caratterizzare la zona di interesse di quegli scritti), il senso sacerdotale e altamente didascalico e civilizzatore del Gravina è meno presente che non la sua lezione di alto decoro classico, di esemplarità dei greci. Ed effettivamente il senso piú pieno del suo messaggio, come di quello contiano del credibile e verisimile nella pittura omerica, trovano nuova vita profonda nel Foscolo (in cui vive anche quello ben diversamente fecondo in sede estetica, ma meno pungente e stimolante in sede pratica letteraria, del Vico), mentre in questa fase di divulgazione neoclassica, che trova vera realizzazione poetica solo nel Parini, è soprattutto la suggestione winckelmanniana che agisce piú direttamente ed efficacemente, con i suoi dettami essenziali, con la sua indicazione di miti-figure non piú miniaturistiche e ridotte, ma distese e lineari. In certo senso si passa dai cammei ai bassorilievi ed ai gruppi, dalla figura rococò agli affreschi, che trionferanno soprattutto nel pieno neoclassicismo napoleonico montiano e foscoliano in cui l’estremo trionfo del classicismo e dello «stile» si confonde con una vita profonda, irrorata da altri motivi romantici. E questi si incontrano senza urto con quella nostalgia per una Grecia ideale, per un Iperuranio di bellezza e di armonia, a cui l’ultimo Settecento collabora anche nell’opera scadente dei suoi vati neoclassici pomposi e retorici, eclettici e approssimativi, ma letterariamente significativi e non riducibili ad una ripetizione di semplice chiusura dell’iniziale Arcadia pindareggiante dei Filicaia e dei Guidi.


1 Si veda in proposito la lettera del Rezzonico al Bernieri (Rezzonico, Opere, Como 1830, X, p. 159).

2 Del gusto presente in letteratura italiana, dissertazione del sig. dott. Matteo Borsa ecc., dato in luce e accompagnato da copiose osservazioni da Stefano Arteaga, Venezia, s.d. [ma 1784]. Anche il Pindemonte rispose (v. il mio Preromanticismo italiano cit., 2a ed., pp. 285-287) con una dissertazione prudente e temperata, in cui la presenza delle letterature straniere è sollecitata, ma non nella mediazione francese, e d’altra parte si invoca uno stile semplicissimo, un gusto sano e sempre le sicure letture dei classici. La Dissertazione è dell’epoca delle Poesie campestri: solo piú tardi il Pindemonte assumerà posizioni neoclassiche piú esplicite. Sul Borsa si v. ora E. Bigi, Tra classicismo e preromanticismo: Matteo Borsa, in «Lettere italiane», 1959, p. 320 ss.

3 Op. cit., p. 18.

4 «Quella fiumana lutulenta e fangosa che tutte inonda oggimai le nostre contrade», p. 24.

5 Op. cit., p. 42.

6 E un ultimo carattere è condannato da un punto di vista chiaramente neoclassico: la «confusione di generi», che ci ricorda come nei confronti del preromanticismo il neoclassicismo sentisse l’esigenza di riaffermare, piú chiaramente di quanto non aveva fatto il classicismo illuministico, il principio della regolarità dei generi in nome dei modelli e della tradizione aulica, mostrando un’inclinazione che il romanticismo potrà battere poi con estrema efficacia.

7 Op. cit., p. 112.

8 Anche il Meli ha un sonetto contro la grecomania venuta a sostituire la «moda francese», sia pure vista nell’abbigliamento femminile: Sopra la corrente moda.

Francese ingegno in inventar novelle

foggie d’abbigliamento industre e mode,

presso noi vai perdendo forza e lode,

il bel sesso diviene a te ribelle.

Qui il genio femminil scava piú belle

dalle rimote antichità, le mode,

e su le vesti trapiantar sol gode

quanto scolpí già Fidia o pinse Apelle.

Ciò che non è alla greca or non fa onore,

alla greca maniera ogni altra cede;

greco il fregio esser dee, greco il colore.

Dunque ove tutto grecizar si vede,

qual meraviglia è poi s’anco in amore

greca sia diventata omai la fede?

9 Il Rubbi difese i greci in una risposta al Saggio del Compagnoni sugli Ebrei e sui Greci (I Greci antichi e moderni, Venezia, 1792) con parole appassionate: «Il vostro imperio non è piú in Atene né in Costantinopoli, ma piú esteso assai e piú fermo nello animo di tutti i saggi, di cui foste e siete maestri» (p. 175).

10 Dialoghi fra il sig. S. Arteaga e A. Rubbi in difesa della letteratura italiana (Venezia 1786), Dialoghi fra il sig. G. Andres e A. Rubbi in difesa della letteratura italiana, Venezia,1787.

11 Discorsi fra S. Arteaga e A. Rubbi cit., p. 16.

12 II bello letterario, Venezia, 1787.

13 Nello stesso Saggio del Bettinelli, le cui punte piú interessanti sono quelle volte in direzione preromantiche e perciò da me utilizzate nel mio Preromanticismo italiano (pp. 64-71, 2a ed.), le considerazioni sulle arti figurative sono nettamente neoclassiche (anche i preromantci videro neoclassicamente quando si rivolsero al campo delle arti figurative e, se il giovane Foscolo nella III lettera dell’Ortis bolognese dileggiava per bocca di Jacopo il mengsiano Odoardo che voleva «perfezionare» la natura, nel suo Piano di Studi i suoi modelli critici sono Winckelmann, i suoi esempi pittorici Raffaello, Tiziano, Correggio e Mengs e nella lettera all’Olivi dell’8 settembre 1796 all’amore per l’Ossian si associava l’ammirazione per il Giove Egioco del neoclassico Schiavon) e motivi neoclassici si annidano fra le sue affermazioni preromantiche, svolgendosi poi nelle posizioni piú senili della Dissertazione accademica sopra Dante.

14 A. Paradisi, Poesie e prose, Reggio 1827, II, p. 160.

15 Op. cit., II, p. 151.

16 Del gusto in ogni maniera d’amene lettere ed arti, Como 1793.

17 I. Martignoni, Del bello e del sublime, Milano 1810.

18 Op. cit., p. 144. Gallofobia e antiilluminismo si ritrovano insieme nel tradizionalismo neoclassico e nel nuovo nazionalismo romantico alfieriano.

19 Nel Commento alla Chioma di Berenice e nella nota al cap. LVIII della versione sterniana, dove si dice che la lingua italiana «è un bel metallo che bisogna ripulire dalla ruggine dell’antichità e depurare dalla falsa lega della moda» (U. Foscolo, Prose varie d’arte, ed. naz., V, Firenze 1951, p. 149).

20 Op. cit., p. 25.

21 Op. cit., p. 75. E si vedano anche le pp. 68-69 sugli «affetti», sul cuore e la «tenera sensibilità».

22 Op. cit., pp. 61 e 64.

23 Foscolo non accetterà la via d’uscita contiana e varaniana (op. cit., p. 67) delle nuove «favole» della religione cristiana. V. Chioma di Berenice.

24 Op. cit., pp. 20-21.

25 Op. cit., p. 23.

26 Op. cit., p. 35.

27 Op. cit., p. 35.

28 Op. cit., p. 37.

29 Op. cit., p. 36.

30 Op. cit., p. 38.

31 Op. cit., pp. 64-65.

32 Nell’ultimo Settecento e primo Ottocento si delinea un distacco da Orazio che culminerà nella mediocre stima del Foscolo (che pure amò e calcolò l’autore dei Sermones nell’epoca della traduzione di Sterne) e nell’antipatia dei romantici 1816. Ma insieme va notato, nella direzione che indichiamo con il Vannetti, un nuovo tentativo di utilizzare Orazio in un gusto piú disteso e piú sobrio, piú distaccato e solenne, come farà nella sua traduzione e nei suoi commenti il Gargallo. Sul Vannetti si v. ora la nota introduttiva nel volume antologico a cura di E. Bigi, Critici e storici della poesia e delle arti nel secondo Settecento, Milano-Napoli 1960.

33 Il Cesarotti in questo fu insieme il padre della letteratura preromantica e il venerato professore di letteratura greca, il traduttore dei prosatori greci e il riduttore di Omero in vesti settecentesche. E in tale duplice aspetto lo considerò anche il giovane Foscolo che poi doveva insieme criticare il suo preromanticismo e il suo dubbio classicismo.

34 Opere, Venezia 1862, vol. VI.

35 Del resto il Vannetti, per quanto anche lui ossequente alla bellezza greca, si rivolse tutto ai classici latini e (Opere, VIII, 303) confessò volentieri la sua scarsa conoscenza del greco: «Si dice ch’io pretendo di saper greco e nol so. Nol so di fatto e non pretendo saperlo».

36 Una storia della fortuna di Orazio nel Settecento si avvierebbe utilmente da queste discussioni e da quelle del Gargallo, come le osservazioni critiche del Foscolo sulle traduzioni della Chioma di Berenice e del primo canto dell’Iliade sono essenziali per uno studio esplicito delle traduzioni settecentesche di quelle opere e in genere delle opere classiche.

37 Opere, IV, p. 25.

38 «Il suo ardir nella lirica era studiato, e piú d’ingegno che d’anima, piú di testa, che di cuore, era, come ei medesimo dice, uno scrittore operoso, che per raccozzare un’ode si tenea sempre davanti Pindaro, Alceo, Anacreonte, Saffo, Simonide, ecc. Non cosí per fare una satira od un’epistola. In questo genere egli era scorta a se stesso e trovavasi nella propria casa assolutamente padrone» (V, p. 254).

39 Cosí anche nel Vannetti permane il vagheggiamento del poeta-filosofo:

Che sorga anche tra noi tal che del vero

segua le belle scorte, audace e saggio,

che sparga fiori e asconda frutti a un tempo

ne’ dotti versi, ond’anco Italia un giorno

d’un poeta filosofo sia bella...

Ma il senso del poeta-filosofo sarà sempre piú nel neoclassicismo vicino alla figura graviniana-contiana che non al «filosofo leggiadro e util poeta» del Settecento illuministico.

40 Cosí nel raffazzonamento poetico La villa di Orazio, questo quadretto che poteva sembrare di convenzione preromantica:

Qui tiepidi verni

lunghe qui primavere e qui sereni

giorni trarrem: qui, come voglia il fato

di giusto bagnerai tenero pianto

il cener caldo del poeta amico (V, p. 19),

viene accuratamente accompagnato dai versi oraziani di cui è traduzione-imitazione.

41 I Dialoghi uscirono nel 1783 in appendice al Lunario l’Eremita, ma furono corretti nel 1794. Il V è del 1787.

42 Opere, V, p. 256.

43 Per questo legame fra le polemiche dell’ultimo Settecento e la romanticomachia si veda il mio saggio La battaglia romantica in Italia in Critici e poeti dal ’500 al ’900, Firenze, 1951 (ora in nuova ed. accresciuta, 1963).

44 Come al Cap. II, ironicamente: «Le parole non sono che segni di convenzione a spiegar le idee. Dunque l’eloquenza è una chimera fuori di moda, ed il progetto di un’accademia di lingua è ridicolo».

45 Opere, I, pp. 58-60, p. 59.

46 Opere, I, pp. 60-63.

47 Opere, I, pp. 68-70.

48 L’accusa riguarda soprattutto la poesia di origine klopstockiana.

49 Opere, VI, p. 210.

50 Opere, VI, p. 230, nota.

51 Opere, VI, nota 45.

52 Lo dice per le odi di Gellert, p. 226.

53 Flessibil, ricca, armoniosa e forte

è nostra lingua; il fior serba geloso

di sua purezza...

Tu ciò ne prendi (e sii nel prender cauto)

che a l’indole natia s’unisce in lega,

e ne ingemma tuoi carmi e Ausonia bea.

Ma ciò che a guisa di straniera pianta

schifa nostr’aere, e nostro suol rigetta...